Quando la pioggia decide di fare la sua comparsa a Milano, non è mai un evento banale. Non si tratta di un semplice fenomeno atmosferico, bensì di un vero e proprio test di resistenza per l'intera metropoli, un esame a cui, puntualmente, si preferisce non presentarsi preparati. Si dice che il progresso si misuri dalla capacità di un sistema di affrontare gli imprevisti, ma a giudicare da quanto accaduto ieri, sembra che a Milano si sia passati dall'affrontarli al contemplarli, immobili, mentre l'acqua si impossessa delle strade.
Bastava una notte e una mattinata di pioggia, non un diluvio universale, per vedere il tessuto urbano sfilacciarsi. Strade che diventano fiumi, sottopassi che si trasformano in piscine pubbliche e tombini che, con un certo senso del dramma, eruttano acqua e detriti come piccoli vulcani urbani. È un copione che si ripete con la precisione di un orologio svizzero, ma con la drammaticità di un film di serie B. Eppure, ogni volta, la reazione è la stessa: un misto di stupore e rassegnazione, come se la pioggia fosse un'invenzione recente e non un elemento che accompagna la vita di questa città da secoli.
Ma la domanda sorge spontanea e, forse, un po' amara: come può una città così vulnerabile all'acqua, candidarsi a ospitare un evento di portata mondiale come i Giochi Olimpici Invernali del 2026? La retorica delle Olimpiadi è stata costruita sull'immagine di una metropoli efficiente, moderna e all'avanguardia. Un'immagine che, con qualche goccia di pioggia, si dissolve come un castello di sabbia. Forse ci siamo persi qualcosa: l'acqua delle fontane in Piazza Duomo è la stessa che poi non riesce a scorrere nelle fognature? O forse la pioggia milanese è di un tipo particolare, più "difficile" da gestire rispetto a quella del resto del mondo?
Si continua a costruire senza sosta, a erigere grattacieli che sfidano le nuvole, a tessere una rete di cemento e vetro che sembra non avere fine. E per che cosa? Per poi ritrovarsi con le stazioni della metropolitana che si allagano come se fossero state progettate per essere il prossimo grande acquario pubblico? La priorità sembra essere quella di mostrare al mondo una facciata patinata, fatta di design e architettura avveniristica, mentre le fondamenta, letteralmente, affondano. Non sarebbe ora di smetterla con l'esibizionismo edilizio e cominciare a pensare a quello che sta sotto, a quello che non si vede, ma che è essenziale per il bene comune?
L'assegnazione dei Giochi Olimpici a Milano, in questo contesto, appare come un'ironia del destino. Quali accordi segreti, quali promesse celate, quali interessi personali hanno guidato una scelta che, alla luce di questi eventi, sembra quasi un atto di fede cieca? L'ironia della sorte vuole che i Giochi siano invernali e che, in caso di neve, la situazione potrebbe trasformarsi in una tragicommedia. Forse il piano è di far sciare gli atleti nelle strade allagate, un'Olimpiade ibrida, tra sci nautico e bob.
È tempo di mettere da parte la retorica dell'evento a tutti i costi e iniziare a pretendere una gestione seria e lungimirante della cosa pubblica. La vergogna non è tanto nel disagio creato dalla pioggia, ma nell'inerzia di chi dovrebbe risolvere questi problemi e, invece, preferisce cavalcare l'onda dell'effimero. L'Olimpiade, se deve essere un simbolo, che lo sia di una comunità capace di fare la cosa giusta, di mettere da parte gli interessi di pochi per il bene di tutti. Altrimenti, continueremo a fare gli spettatori, in prima fila, mentre la nostra città va in tilt per una manciata di nuvole cariche d'acqua.


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