martedì 2 settembre 2025

Trovo l'AI troppo impersonale, voi che ne pensate? - ERA COSI' UN BRAVO RAGAZZO ... poi ha smesso

Insomma è comodo però mi manca la pancia, come diceva "la fu" Simona Ventura e la sboccatona Mara Majonchi

Ho provato a scrivere il capitolo di un libro, fornendo un'origine narrativa, i protagonisti e l'ambientazione in cui si doveva svolgere e da cui attingere, usando l'AI, e sinceramente mi è sembrato troppo freddo e distaccato, ve lo riporto di seguito e mi dite cosa ne pensate:



TITOLO:

"ERA COSI' UN BRAVO RAGAZZO"

…e poi smise di esserlo


Capitolo 1: La Nascita del "Bravo Ragazzo”

Milano, fine anni Sessanta. L’aria era densa di promesse e del fumo acre delle fabbriche, un profumo di cemento fresco e di speranza operaia. Non era il profumo dolceamaro degli agrumeti siciliani, né il sentore salmastro del mare che accarezzava le coste della loro terra d'origine. Per Salvatore e Teresa, i genitori di Giuseppe, Milano era la terra promessa, il luogo dove il lavoro non era un miraggio ma una certezza, dove i figli avrebbero avuto un futuro diverso, migliore. Erano arrivati con una valigia di cartone e il cuore gonfio di un misto di paura e audacia, portandosi dietro non solo il dialetto stretto e le ricette della nonna, ma anche un codice non scritto, antico come le pietre dei templi greci. Un codice fatto di onore, di famiglia, di ruoli maschili e femminili scolpiti nella roccia della tradizione.

Salvatore era un uomo massiccio, con mani grandi e callose che sapevano di terra e di fatica. I suoi occhi, piccoli e scuri, riflettevano la severità di chi aveva imparato la vita sulla propria pelle. Per lui, l'uomo era il pilastro, il fornitore inamovibile, colui che non doveva mai mostrare una crepa, una debolezza. "Un uomo è un uomo quando provvede alla sua famiglia, quando non fa mancare niente," soleva ripetere a Giuseppe, con la voce roca e lo sguardo fisso, quasi a voler imprimere quelle parole nel DNA del figlio. Giuseppe aveva imparato presto il peso di quelle aspettative, un fardello invisibile ma schiacciante. Ogni piccola insicurezza, ogni incertezza, veniva stroncata sul nascere da uno sguardo severo o, peggio, da un rimprovero aspro e umiliante. Le parole di Salvatore non erano mai dolci, spesso erano taglienti come frustate, capaci di scavare ferite profonde nell'animo di un bambino. "Sei inutile," "Non vali niente," "Sei un buono a nulla" erano frasi che Giuseppe aveva sentito troppe volte, instillandogli una paura cronica di fallire. A volte, la severità si traduceva anche in schiaffi rapidi e inaspettati, dati più per affermare l'autorità che per punire un'azione specifica, lasciando non tanto lividi sul corpo quanto cicatrici invisibili sull'autostima del piccolo Giuseppe.

Teresa, la madre, era una donna minuta, ma con una volontà d'acciaio nascosta dietro un viso segnato dalle rughe premature. I suoi capelli, raccolti in uno chignon tirato, sembravano voler contenere un'energia repressa. Era lei che gestiva la casa con pugno di ferro, che centellinava ogni lira, che giudicava con uno sguardo più che con le parole. Giuseppe, fin da bambino, aveva imparato a leggere il disappunto nei suoi occhi, a temere il suo silenzio più di qualsiasi rimprovero. Teresa non alzava mai la mano, ma la sua violenza era sottile e penetrante, fatta di silenzi punitivi, di sguardi carichi di delusione, di critiche costanti e corrosive che minavano giorno dopo giorno la fiducia di Giuseppe in se stesso. "Non sei come dovrebbe essere un uomo," "Devi essere più forte," le sue parole erano come gocce d'acqua che scavano la roccia, erodendo la sua già fragile autostima. Era cresciuto con l'idea che la sua virilità fosse legata indissolubilmente alla sua capacità di essere "forte", di non deludere le aspettative, di non essere un "fallito", un concetto instillato attraverso una disciplina rigida e priva di affetto, spesso basata su tecniche di manipolazione psicologica che lo lasciavano confuso e insicuro.

Milano, primi anni Ottanta. Per Giuseppe, tredicenne, la promessa di futuro della città era già un groviglio di paure inespresse. La sua goffaggine, la sua aria perennemente incerta, lo rendevano facile preda di chi cercava potere. Cercava l'accettazione, disperatamente. Per questo, forse, si legò a quel gruppo di ragazzi più grandi, più spavaldi, capeggiati da un certo Enzo, un bullo carismatico con lo sguardo d'acciaio e una reputazione da difendere.

Morena era il tipo di ragazza che non passava inosservata. Era in classe con loro, ma sembrava appartenere a un altro mondo. Con i suoi riccioli neri ribelli e un corpo già prorompente per la sua età, sfidava le uniformi grigie della scuola con un'aura di vivacità quasi sfacciata. Era solare, rideva forte, e aveva avuto l'ardire di lasciare Enzo per un ragazzo di un'altra scuola, una vera e propria offesa al "codice" non scritto del quartiere. Le voci correvano, infettando l'aria come un virus. Enzo era furioso, il suo orgoglio ferito. E quando Enzo era ferito, cercava vendetta.

Giuseppe lo sapeva. Lo sentiva nell'aria, quel sentore acre di qualcosa di brutto imminente. Enzo aveva cominciato a radunare i suoi, a sussurrare piani vendicativi. Giuseppe era lì, in mezzo a loro, la bocca asciutta, il cuore che martellava contro le costole come un tamburo impazzito. Inizialmente, una parte di lui era restia, il terrore di ciò che stava per accadere gli serrava lo stomaco. Avrebbe voluto scappare, svanire, ma la paura di essere escluso, di essere bollato come un debole, era più forte del suo istinto. Poi, le parole di Enzo e degli altri cominciarono a farsi strada nella sua mente. "Quella troia si merita una lezione," sibilava Enzo, il viso contratto dalla rabbia. "Gliel'abbiamo detto, è una poco di buono." Le voci si accavallavano: "Una puttana, ecco cos'è! Ci sta provocando, vuole questo!" Giuseppe sentiva quelle parole e, un po' alla volta, la sua resistenza si sgretolava. Se tutti lo dicevano, se era così ovvio, allora forse era vero. Forse Morena era davvero una "troia", e quello che stavano per fare non era un male, ma una giustizia, qualcosa che lei, in fondo, desiderava o meritava. L'idea che stessero solo assecondando un suo implicito desiderio, o che la stessero punendo per la sua "colpa", gli diede una strana, perversa, legittimazione.

Fu una sera piovosa, il cielo basso e plumbeo, perfetto per nascondere le ombre. Enzo aveva avuto la soffiata: Morena avrebbe tagliato per il parco, sola, per tornare a casa. L'appuntamento era lì, al limitare degli alberi spogli, vicino ai lampioni che proiettavano cerchi di luce fioca e ingannevole. Giuseppe era con gli altri, in attesa. Ogni foglia che frusciava nel vento, ogni goccia di pioggia che si schiantava al suolo gli faceva sobbalzare il cuore, ma ora era un battito misto a una crescente eccitazione, una strana sensazione di potere che non aveva mai provato.

Quando Morena apparve, una figura esile e ignara nell'oscurità, fu come se il tempo si fermasse. Il gruppo si mosse, rapido, spietato. La accerchiarono. Le sue risate si spensero, sostituite da un grido strozzato. "Giuseppe... no!" La sua voce, un misto di sorpresa e panico, gli perforò i timpani. Aveva incrociato il suo sguardo, per un istante. Morena lo aveva riconosciuto. Ma in quell'istante, negli occhi di Giuseppe non c'era più la paura di prima. C'era un ardore nuovo, la convinzione distorta di stare facendo la cosa giusta, quasi un piacere crudele.

Lei si divincolava, disperatamente, ma le mani erano troppe, la forza era troppa. La immobilizzarono contro il tronco ruvido di un albero. I vestiti, il suo scudo, vennero strappati con furia. Il suono della stoffa che cedeva, il rumore dei bottoni che saltavano, furono un orribile concerto. Le risate degli altri, crudeli e sorde, riempirono il silenzio del parco. Giuseppe partecipò con trasporto, sentendo il piacere di quella violenza scatenata. Le sue mani, che prima si erano sentite impacciate e inette, ora si muovevano con determinazione, afferrando, strappando. Ogni brandello di tessuto che cadeva a terra era una vittoria, un'affermazione del suo potere, un modo per sentirsi finalmente "uomo", forte, come suo padre e sua madre desideravano.

Ricordava il pianto di Morena, un suono strozzato e disperato, le sue lacrime che si mescolavano alla pioggia. Ma quel suono non gli procurava più fastidio; era un sottofondo, la conferma che il suo potere era reale. Poi il silenzio, un silenzio assordante, mentre il gruppo si disperdeva nell'oscurità, lasciandola lì, sola, a raccogliere i pezzi della sua dignità lacerata.

Giuseppe corse a casa, il fiato corto, il cuore in gola. Non si sentiva sporco o macchiato. Per la prima volta, si sentiva potente, euforico. Quella sera, tornando a casa, fu una delle prime volte che sentì di essere diventato più forte, l'uomo forte che gli chiedevano di essere in famiglia. Aveva affrontato la paura, aveva partecipato, aveva dimostrato di non essere un debole. E non ne parlò mai a nessuno. Non osò, non perché provasse rimorso o vergogna per l'atto in sé, ma perché temeva che i suoi genitori non avrebbero capito la "necessità" di quella dimostrazione di forza, o che avrebbero potuto vedere un lato di lui che non voleva rivelare.

Morena non tornò a scuola per mesi. Quando riapparve, era un'altra persona. Gli occhi spenti, il sorriso spento. La sua vivacità era svanita, sostituita da un'aura di cinismo e autodistruzione. Le voci nel quartiere la etichettarono in fretta: "una poco di buono", "si è data alle droghe". Nessuno, apparentemente, collegò il suo declino a quella notte nel parco. Ma Giuseppe lo sapeva. E quel segreto non era un peso, ma una conferma, un ricordo latente del potere che aveva provato, un'esperienza che, nella sua mente distorta, lo aveva temprato, rendendolo l'uomo forte che doveva essere, un uomo che aveva imparato a controllare e a punire.



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