A Motegi, la verità è emersa in modo brutale e diretto. L'ultimo Gran Premio non è stato solo un evento sportivo, ma la ratifica di una strategia che la Ducati ufficiale aveva pianificato da tempo: il titolo doveva finire a Marc Márquez.
Márquez ha vinto il titolo sulla moto ufficiale, con la quale ha corso per un anno. Bene. Ma qui non si discute il talento. Si discute la trasparenza e la lealtà della competizione.
È davvero credibile che la moto di Francesco Bagnaia, per gran parte della stagione, fosse costantemente un mezzo ingestibile, quasi "sabotato" dalle circostanze, come era ben visibile a tutti? E poi, miracolo!, proprio quando il titolo era già matematicamente assegnato a Márquez, Bagnaia riceve una moto funzionante e stravince Sprint e GP con una superiorità imbarazzante. Cosa dobbiamo dedurne? Che i tecnici Ducati hanno trovato la soluzione perfetta proprio quando non serviva più, oppure che, finalmente, il pilota italiano aveva tra le mani ciò che gli era stato negato prima?
Ci si chiede: perché la casa di Borgo Panigale ha fatto questa scelta? La risposta potrebbe essere semplice e crudele: le vendite sul mercato spagnolo. Di fronte alla possibilità di un'espansione aggressiva in un mercato chiave come la Spagna, la necessità di mantenere l'integrità sportiva e il valore competitivo è stata spazzata via. Il volto di Márquez è un asset globale che, per la superficialità del pubblico moderno, vale molto più di qualsiasi trofeo vinto per puro merito tecnico.
Questa politica, legata in maniera così evidente al profitto, distrugge la trasparenza dello sport. E il pericolo non si ferma alle due ruote.
Siamo sicuri che lo stesso non stia accadendo già con le automobili? Se il successo in Moto GP può essere manovrato per massimizzare il ritorno sul mercato, chi ci assicura che in Formula 1 o nelle gare endurance non esistano dinamiche simili che alterano il valore sportivo?

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