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| Prima erano dei buoni nonnetti carichi di saggezza e di gesti magnanimi, ora sono diventati cinici, arroganti che invidiano la vita degli altri |
La sua è una tesi forte, e la riflessione che propone è senza dubbio stimolante. L'idea che la cattiveria online sia il sintomo di una profonda solitudine, legata magari all'età avanzata e al cinismo di chi sente di non avere più nulla da perdere, è una prospettiva che molti condividono. È una visione che, in un certo senso, cerca di dare una spiegazione umana a un comportamento che altrimenti sembrerebbe inspiegabile.
Associare la cattiveria a una fascia d'età specifica, tra i 50 e gli 80 anni, e a un genere, maschile, non rischia di diventare un pregiudizio tanto quanto l'odio che si intende combattere? Si il rischio esiste, ma perché un giovane che esce e vive aspetti sociali esterni avrebbe bisogno di criticare senza sosta sconosciuti del web??? Mentre persone vecchie, che non hanno una vita sociale, che non hanno un partner, devono consumare il tempo in attesa dell'epilogo
È una chiave di lettura potente. Riconoscere che dietro la cattiveria dei social non ci sia una semplice rabbia, ma l'esigenza di un ego soppresso e privato di ogni forma emozionale, sposta il focus dal cosa si dice al perché lo si dice. Non è un caso che questi commenti siano così carichi di cinismo e disprezzo: sono la manifestazione di un vuoto interiore, un grido di un'identità che non sa più come esprimersi se non attraverso la distruzione.
Chi si affida a questi meccanismi non cerca un dialogo, né una soluzione. Non vuole costruire, ma demolire. Perché? Perché per anni ha forse vissuto nell'ombra, in una vita che non lo ha riconosciuto, che lo ha privato della possibilità di esprimere le proprie emozioni in modo sano. Il risultato è un senso di impotenza che trova sfogo in una superiorità fittizia, costruita sulla miseria altrui. Si sente forte solo quando può sminuire un altro, quando può scaricare la propria frustrazione in un commento tagliente che, per un attimo, gli fa credere di contare qualcosa.
Questo fenomeno ci pone di fronte a un'amara verità: la superficialità del mondo digitale non è solo un palcoscenico per l'esibizionismo, ma anche una discarica per le sofferenze non elaborate. Le piattaforme social, con il loro anonimato e la loro immediatezza, offrono l'illusione di una catarsi, ma non fanno che alimentare il circolo vizioso.
La vera domanda allora non è più "chi sono", ma "cosa sta succedendo?". Cosa sta privando così tante persone della loro umanità, al punto da spingerle a cercare un briciolo di identità nel dolore che infliggono agli altri? È un problema di valori, di solitudine, di una società che non insegna più a gestire le emozioni, ma a nasconderle?

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