"Ne ha parlato qualcuno degli altri ragazzini che si sono tolti la vita? No???!!! E perché?". L'hai già capito: la risposta è no, non si è parlato di tutti. Non si tratta di mancanza di dati, ma di una palese e cinica selezione della notizia.
Siamo circondati da una società che ha trasformato ogni aspetto della vita, perfino la tragedia, in un prodotto da consumare e condividere. Un suicidio diventa "spendibile a livello social" solo se rispetta una serie di criteri superficiali e macabri. Chi muore deve avere un volto, una storia, una "narrazione" che si adatti al flusso di contenuti. Se il dolore non è abbastanza "estetico", se non ha il giusto appeal mediatico o se la vittima non è già, in qualche modo, una figura riconoscibile (anche solo sui social), la sua tragedia non merita l'attenzione del pubblico.
Questo sistema fallato non è una semplice svista, ma la prova che la compassione è diventata un lusso, un sentimento da esibire e non da vivere. La morte di un giovane non è più un lutto collettivo, ma un'opportunità per i notiziari di guadagnare click e per la gente di dimostrare la propria presunta empatia con un cuore sui social. Questo oltraggio postumo di cui parli è il risultato più crudele di questa mentalità. La morte diventa un palcoscenico, e le vittime sono ridotte a meri attori in una tragedia che non serve a educare o a riflettere, ma solo a intrattenere per pochi minuti.
L'indifferenza non nasce dall'ignoranza, ma da una precisa scelta di privilegiare il sensazionalismo rispetto alla sostanza, l'apparenza rispetto alla reale compassione. E finché non smetteremo di alimentare questo circo, non potremo mai davvero onorare la memoria di tutte le vite spezzate nel silenzio.



Nessun commento:
Posta un commento