È inevitabile, a volte, porsi una domanda: che valore ha oggi la celebrazione di un successo, se poi l'unica cosa che si sa chiedere è da dove vieni e non dove stai andando? L'intervista a Sara Curtis, dopo il suo record italiano, non è stata un'eccezione, ma l'ennesima conferma di quanto la nostra società sia ossessionata dal sangue, dalle radici, da una presunta purezza che sfuma in un'esibizione stucchevole e anacronistica.
Invece di concentrarsi su una ragazza che, con fatica e talento, ha stabilito un nuovo primato, si preferisce scivolare nel torbido del razzismo. L'intervistatrice, con una domanda che sembrava studiata per creare scandalo, ha cercato l'attrito, la lacrima, l'episodio di vittimismo, forse per fare ascolti o per far parlare di sé. Ed è qui che si manifesta la superficialità: nel voler scavare nel passato per trovare un'etichetta, un'origine che in qualche modo possa sminuire un successo presente. Ma a cosa serve tutta questa foga? Forse a nascondere il vuoto di chi non ha nulla di concreto da offrire se non la retorica del "noi e gli altri"?
La risposta di Sara Curtis è stata una doccia fredda di maturità e intelligenza. Ha trasformato un insulto in motivazione. Ha mostrato una dignità e una lucidità che molti adulti, tra cui giornalisti e "amanti" di un'epoca che sembra non passare mai, dovrebbero invidiare e da cui dovrebbero imparare. Perché sempre loro? È una domanda che sorge spontanea quando si osserva come certi giornalisti, in particolare di estrazione romana, sembrano avere un'inclinazione quasi genetica a trasformare qualsiasi evento in un pretesto per la polemica e il vittimismo. Non contenti di raccontare un successo, devono per forza scavare, cercare l'attrito, la ferita, come se il loro compito non fosse informare, ma aizzare gli animi.
Sembra che a Roma, invece di festeggiare un'eccellenza, si debba prima verificare se l'eroe di turno sia sufficientemente "romano" o "italiano" secondo i loro canoni, come se l'appartenenza a una città o una nazione fosse un certificato di qualità che va esibito a ogni costo. E se c'è un'ombra di diversità, un'origine che non corrisponde al cliché, ecco che diventa un'arma, un modo per mettere in discussione il valore di un successo che, altrimenti, sarebbe indiscutibile. Questo non è giornalismo, è esibizionismo. È la ricerca del sensazionalismo a ogni costo, un riflesso di una società che sembra aver perso il senso del merito e del rispetto.
Sara Curtis ha dimostrato che c'è un altro modo di vivere, di pensare, di essere italiani. Lei ha vinto in piscina, ma ha trionfato nel rispondere alla bassezza con l'eleganza. L'unica cosa che si può dire è che, se il giornalismo romano vuole continuare a fare domande come quelle, allora deve prendere esempio da lei, non dal loro ego.

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