Floc era un cane di quattro anni che viveva in una bellissima famiglia alla periferia di un piccolo paese di campagna. C’era gioia nel suo cuore e pensava che tutti i suoi simili vivessero così.
Poi un giorno, mentre giocava da solo in giardino, un umano dai modi gentili lo attrasse verso la cancellata e, un po’ a forza, un po’ con voce suadente, lo spinse al di fuori, per una più grande, ma brevissima libertà. Lo fece salire su una vecchia utilitaria e lo portò a spasso per un po’. Furono giorni strani, nei quali cambiò spesso di posto finché non arrivò in una grande cascina, dove fu accolto da un uomo dalla pelle bruciata dal sole dei campi che lo prese in consegna dall’altro umano dicendogli:” I ragazzi volevano un cane, ma questo è un po’ piccolo e da guardia non so se va bene. Non posso darti più di diecimila lire…”. I due si accordarono con una stretta di mano e Floc si trovò senza famiglia, ma con quattro padroni, due adulti e due ragazzi.
Ora che finalmente non era più sballottato di qua e di là cercò di orientarsi: sentì il profumo del fiume, ma gli altri odori della campagna erano diversi e, nonostante fosse stagione, non sentiva l’odore del riso. Si chiese il perché di quel cambiamento, sembrandogli impossibile che la sua famiglia fosse lontana e lo lasciasse a una nuova vita.
Dovette imparare la falsa libertà della lunga catena, cui era esonerato solo quando i figli dei suoi padroni lo facevano giocare insieme a loro nei pomeriggi di sole; finché crebbero e i pomeriggi divennero solo dei frammenti di giorni di festa, e non tutti… Imparò a respirare il cemento polveroso della vecchia aia, il suo nuovo giardino, senza profumi e senza colori. Imparò a convivere con pulci e zecche, periodicamente liberato da qualche bagno stagionale che non poteva certo rendere lucente il suo bellissimo pelo come le mille premure e le attenzioni della sua vecchia famiglia. Imparò a sognare di entrare in quella casa di umani per salire sul divano e accoccolarsi vicino a quello di loro che gli allungava una dolce carezza. Si ricordava spesso che nessuno lo accarezzava più con lo stesso trasporto del suo bambino e gli mancava proprio quella mano che, di notte, scendeva dal letto e lo trovava che dormiva in serenità nella loro cameretta. Anche il cibo era pessimo, i peggiori avanzi degli umani, che, a guardare come spesso la ciotola era semivuota, dovevano avere sempre molta fame, tranne per il pane raffermo che elargivano con molta generosità. In fondo i suoi nuovi padroni non erano cattivi, era lui che non era che un cane.
Ma lui era buono e sopportò tutto perché sapeva che quelle prove sarebbero finite.
Dopo che Floc fu scomparso, il bambino e i suoi genitori lo cercarono per giorni, prima che la rassegnazione sbiadisse ogni ipotesi e ogni speranza. Il bambino però non si dava pace e la tristezza era la sua nuova compagna di giochi. Tutti tentavano di consolarlo in mille modi diversi e in quel periodo lui imparò a leggere fra le parole la vera sensibilità di chi gli parlava. Scoprì una grande sensibilità d’animo in estranei mentre gli fece male trovare aridità nel cuore di chi gli era più vicino. In particolare non dimenticò mai zia Carlotta e il suo trattarlo da ometto, quel giorno che lo scoprì che pregava Dio di far tornare il suo Floc. Gli disse che “un cane è un cane, non è un cristiano; non dobbiamo soffrire troppo per lui perché altrimenti non impareremo ad amare i nostri simili”. Gli spiegò che Dio non aveva tempo di occuparsi di un cane perché nel mondo ci sono tanti uomini che soffrono. E poi “i cani non hanno un’anima”. Se quello era il problema, il dolore del bambino elaborò una strategia geniale e propose a Dio un baratto: gli avrebbe dato una parte della sua anima pur di poterlo accarezzare ancora, se non fra breve, almeno in un’altra vita, per sempre.
Sicuramente memore dei suoi studi classici, la zia gli stroncò subito ogni speranza, dicendogli che Dio non poteva accettare quel baratto, che l’anima si poteva vendere solo al diavolo e che l’unico risultato possibile era finire nelle fiamme dell’inferno. Da allora non sopportò più il profumo della vecchia zia, il suo tono di voce, la sua immagine incerta; probabilmente per la prima volta conobbe l’odio e fu contento quando, qualche anno dopo, gli dissero che era morta.
Per dodici anni, ogni giorno Floc aveva sperato che il bambino lo venisse a riprendere. Perché sapeva che sarebbe successo, tanto il loro amore era grande. E aveva sopportato tutto perché tutto impallidiva nella speranza che il suo bambino sarebbe tornato a riportarlo nel vecchio giardino per giocare a palla. Ma quel caldissimo giorno d’estate si sentiva freddo, senza più energie e gli chiese scusa perché non riusciva più a sperare, tanto si sentiva stanco. Se qualcuno pensa che un cane non possa sentirsi in colpa, dovrebbe provare quello che il cuore di Floc sentiva mentre abbandonava la speranza di un ricongiungimento impossibile. E senza più speranze, chiuse gli occhi.
La vecchia padrona se ne accorse solo qualche ora dopo, mentre stendeva i panni a pochi passi dalla cuccia. Quando il marito rientrò, lo apostrofò con la solita voce impregnata della noia di chi ha non ha avuto la vita che sognava: “Aldo, il cane è morto. Devi portarlo al fiume prima di sera, altrimenti puzza”.
Il marito eseguì diligentemente e un paio d’ore dopo il corpo di Floc scivolò nelle acque del suo grande fiume, ritrovando dopo tanti anni la libertà che i suoi occhi avevano invidiato agli uccelli che passavano alti nel cielo.
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